Al di là della presa di posizione nei confronti dell’attività venatoria in sé e per sé (e la mia è totalmente e senza possibilità di eccezioni profondamente contraria), c’è un aspetto, fra tutti quelli collegati alla caccia, che da solo costituirebbe motivo sufficiente per allargare il dissenso e il rifiuto.
Nonostante esistano eccezioni, alcune delle quali conosco personalmente, generalmente parlando i cacciatori tengono i loro cani, i cani con i quali vanno a caccia, letteralmente come si tengono gli attrezzi con cui si lavora la terra. Forse peggio.
Chiusi in piccoli serragli per tutto il tempo che intercorre tra il periodo venatorio e il periodo di silenzio venatorio (sempre più breve, ahimé) e tra una battuta di caccia e l’altra; esposti al freddo e al gelo e al caldo torrido; non adeguatamente nutriti; gettati sui tavoli dei veterinari al grido “ricucimelo, e rimettilo in piedi” perché aperti dai cinghiali; mentalmente e fisicamente chiusi in un mondo che non prevede altro che uscire, cercare, trovare e non mangiare ciò che trovano o segnalano. E se non funzionano, vengono abbandonati, uccisi con un colpo di fucile, lasciati morire di fame, fatti arrivare da chi vuole disfarsene o da volontari solerti nei canili e nei rifugi.
Schiavi.
Con le dovute eccezioni, lo ripeto per evitare fraintendimenti e accuse di assolutismo. Ma per quante siano le eccezioni, questa è la norma.
E per quanto questo possa risultare evidente essere crudele, sappiate che i cacciatori tengono ai loro cani, sono legati ai loro cani. Perché sono gli strumenti che permettono loro di uccidere la preda.
Nel piccolo paese in cui vivo e in tutti i paesi circostanti, credo siano pochissimi i cacciatori che trattano i loro cani in un modo diverso da quello descritto. Li vedo dentro i kennel dentro le macchine, due o tre insieme; per le stradine di campagna, al trotto o al galoppo dietro la traccia di un animale, magri che si contano le ossa; li sento latrare chiusi nei loro piccoli box o recinti, molti dei quali pieni di attrezzi per lavorare la terra, lamiere, rifiuti.
In altre parole, sui cani da caccia i cacciatori operano una doppia riduzione, facendoli coincidere con la loro funzione e trattandoli considerando solo la loro funzione: da esseri viventi a cose che hanno un utilizzo. E le cose non hanno bisogni, desideri, emozioni. Le cose devono solo essere efficienti, e possedute.
Potrebbe sembrare il retaggio di un tempo antico circoscritto a vecchi contadini e cacciatori, ma temo non lo sia: si trasmette da padre a figlio a nipote, indipendentemente dal livello di scolarizzazione e di benessere economico e, forse, addirittura, si rinnova nella velocità e automaticità della vita contemporanea, che non inducono certo alla riflessione e al dubbio.
Queste poche e inutili parole (ché non incideranno minimamente su niente e su nessuno) sono state ispirate da T., cane da caccia arrivato in rifugio da una delle situazioni descritte all'inizio, e per alcuni giorni a casa mia, per cercare di renderla più forte prima del viaggio verso gli adottanti.
T. è bellissima, e giovane. E magrissima. Non ha altro in mente se non il cibo. Non guarda, non si relaziona in alcun modo con nessuno, cani e umani. Ha fame. Una fame che ha mangiato la sua identità. Le do da mangiare tre volte al giorno, stando attenta a porzionare bene la quantità per non provocarle danni. E non le basta.
Mangia aspirando il cibo in tre boccate al massimo, e ogni volta temo il blocco intestinale, o la torsione dello stomaco.
Le creste iliache, le costole e la spina dorsale sono visibilissime.
Le ho infilato un maglione di lana.
Mi chiedo quanto dovrà mangiare prima di riuscire a esprimere se stessa, prima di diventare un essere vivente, semmai lo sia stata. Perché ora è solo una bocca che divora, e non certo per sua volontà.
Mi chiedo quanto tempo e quanta pazienza dovranno avere gli adottanti, e quanto dovranno imparare a essere disponibili all'ascolto senza aspettative e senza riserve verso una sconosciuta.
Mi dico che dovrebbe essere detto loro che non l'avranno salvata accogliendola in casa, perché stare vicino a qualcuno privato di tutto, perfino di se stesso, è un dono che si riceve, non che si da.
Queste poche, inutili parole sono in Onore di T.
Alessandra Scudella
Foto:
Frans Snyders, “Caccia al cinghiale”
Un esempio di quanto detto lo si può rinvenire in questo articolo:
https://www.guardiezoofile.info/2014/teramo-argo.html